
Essere o non Essere: Maria
Maria ed il suo linguaggio meritavano di sentirsi coccolati da un amante della lirica e della Callas. Un omaggio fatto alla grande stella dei teatri del mondo, alla fragilità della donna, al talento degli interpreti.
Ho trovato l’esperienza attoriale della Jolie sopra ogni mia aspettativa; ho sentito “cantanti liriche” decisamente meno vibranti rispetto all’ardore dell’attrice. Parafrasando la predizione di Renata Tebaldi (come non citarla nel suo “Odi et amo” con la Callas), la modernità del canto lirico si dirige verso “vocine” destinate a saltare da un personaggio all’altro, senza coglierne più la profondità artistica e tecnica. In questo scenario, il vero tema non è “… Ma la Jolie non ha la voce della Callas” (grazia, graziella e graz…), lei non deve avere quella voce; lei è la voce della disperazione, la voce di un’identità tossica che si rifugia dentro al corpo di Maria, non più Callas.
In questo senso, l’intimità dell’autunno parigino viene scelta come scenografia di un melodramma e su questo palcoscenico va a incidere e scolpire il dolore di una psiche malata, intorpidita dalle benzodiazepine, sconvolta da se stessa riflessa in uno specchio. Quello stesso specchio che non le renderà più la sua voce, la sua bellezza, ma le racconterà la dura verità della giovinezza appassita.
Disarmante lo sguardo del suo maggiordomo, mi verrebbe da domandare a Favino: “Com’è stato essere al servizio della grande DIVA?”, lui che l’ha sfiorata con il suo talento attoriale, facendomi illudere di poterlo incontrare ancora un giorno, mentre mi porge un fazzoletto e mi dice: “Tieni Tisci, questo era di Maria, un fazzoletto che conserva le sue lacrime amare, sofferte e tormentate”. Chi potrebbe sapere quali sono stati i veri pensieri della Callas in quegli ultimi giorni? Quale forza si celava nel suo animo per reggere Medea e quale debolezza l’ha spinta alla disperazione?
Ogni tragedia messa in scena dalla Diva, è un vibrato d’altri tempi che distrugge il cuore di chi lo ascolta: lo strazio di ogni personaggio, la passione, la gioia, tutto in frequenze impercettibili che hanno colorato i velluti del mondo ed oggi continuano a far rabbrividire gli Airpods. Ad Alba Rohrwacher chiederei: “Com’è stato sentire quel canto nella vostra cucina?” oppure “È davvero riuscita a fare l’ultimo canto del cigno mentre eravate per strada? Quali emozioni arrivano a sentir quel vibrato dal vivo? Quali forze e colori c’erano nella sua voce quando stava vicino a voi?”.
Angelina Jolie mi ha fatto toccare con mano il dolore e nella sua drammatica interpretazione ho sentito Maria soffrire, morire dentro. I fantasmi di questa Dea su terra, Favino li ripercuote su una schiena dolorante, su uno sguardo da dolce “innamorato” (platonicamente) e su mille piccole e grandi attenzioni, prestate da un uomo che ama un’idea e dietro ad essa la donna che la incarna.
Ogni costume (sublime lavoro di Massimo Cantini Parrini) segna il passaggio dall’era “ante Callas” alla “post Callas”, contrapposta alla realtà della triste scena della vita, sulla quale si affacciano solo l’ante Maria e la post Maria. Mani sottili e lunghe, giunte spesso in segno di rassegnazione che al contempo evocano barlumi di quell’amazzone delle scene che tenta ancora di brandire la spada dell’arte.
Una sfida artistica enorme, quella del cast, che forse, ancora più di un Amleto, ha dovuto lottare contro i mille modi di interpretare “Essere o non essere, questo è il dilemma” e decidere quale dramma si dovesse leggere tra le righe di un film illusorio. Fino alla fine non è ben chiare quali siano i fantasmi, le fantasie e quale la realtà. Ma anche questo non è a pieno rilevante. Ciò che penso si debba cogliere fra le righe di questo capolavoro è ancor più sottointeso rispetto al piano psicologico; forse ondeggia nella dimensione della poesia metafisica dell’arte, dove si orchestra un requiem infuocato sbalzando l’animo dalla misericordia di un Lacrimosa di Mozart, all’ardente vigore del Dies Irae di Verdi.
Sono certo, perché l’ho sentito nel profondo del mio animo, che ovunque LEI sia oggi, abbia sorriso davanti ad una possibile interpretazione del suo essere (giusta o sbagliata che sia) nella quale va in scena il dramma del suo finale.
Bisogna tener presente che il film si chiama Maria, proprio a voler sottintendere la donna e un po’ meno la Diva, e che in questo senso non brilla solo la luce incondizionata e incontrastata di “Maria Jolie”, ma anche tutta l’architettura dei personaggi e della storia. La figura di Maria è quindi un pretesto; la chiave narrativa di uno dei diversi piani di lettura di quest’opera è il realismo romantico e parentale che si sprigiona nei ruoli di Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher. Entrambi sono protagonisti della sfera della realtà emotiva, quella in cui Maria affoga nella disperazione e che trova àncora in questi due protagonisti, senza i quali tutta la scena perderebbe di lucidità. Noi, spettatori normali, unti di normalità e realtà, riusciamo a intuire il dolore riflesso attraverso il volto di Favino mentre osserva la follia della sua “amata figlia” Maria. Pierfrancesco è il nostro “velo di Maya” attraverso il quale limitiamo la nostra conoscenza di Maria a Callas, scegliendo di guardare alla sua pantagruelica impalcatura artistica, mentre egli invece, da un lato ci apre la strada alla sua cruda dimensione materiale, dall’altro ci indica il sentiero verso cui indirizzare l’anima.
Un invito al distacco dall’immagine dell’immortale Diva, chiara e scolpita nelle menti di tutti noi che ci guida verso la sua fragilità unica e rara: il tormento dell’artista, attraverso cui la sua arte si rigiustifica e diventa ancora più magnificente. L’intangibilità, anch’essa tema parallelo, è da intendere come l’impossibilità del ripetersi, l’impossibilità di raggiunger di nuovo quelle mete consolidate da anni di sfolgorante carriera; l’occhio di bue illumina il tocco sornione della Stella destinata ad estinguersi, circondata dal buio del buco nero del restante palcoscenico. Pierfrancesco Favino è tanto quel faro puntato, quanto la scena attorno, tanto forgia il confine di quella presenza nella sua dimensione umana, quanto giustifica l’infinito oblio isolando il proscenio del teatrale delirio psicotico. Il giovane giornalista, frutto delle visioni di Maria è un altro pezzo di questo complesso disegno narrativo che rappresenta il conflitto tra desiderio intimo, realtà e metafisica. Un antieroe che bruscamente turba l’onda quieta della normalità farmacologicamente posata, per permettere lo scontro con l’amore puro di chi si preoccupa per Maria e per il suo benessere psicofisico.
Non importa quanto ardore sia rimasto nel cuore,
Nessuno potrà illuminare quel gelo oscuro che tra le cellule vive.
C’è solo una pianta rigogliosa e lucente che alena i suoi rami nel buio
e
anch’essa appassirà lentamente
come appassirà la vita.
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